Un porto turistico

Un porto turistico

Bolkestein Concessioni per spiagge e porti, molte le gestioni sull’orlo del fallimento perché chi ci ha rappresentato in Europa lo ha fatto tradendo

Editoriale

13/10/2017 - 16:04

Quando si parla di porti turistici l’immaginario collettivo vede immediatamente materializzarsi lussuosi yacht, belle donne, Ferrari e così via, tutto ciò indotto anche dalle chiacchiere a volte giustificate su investimenti milionari (con le vecchie lire si parlava di miliardi) e di tangenti richieste o intascate da quanti avevano il potere di una firma o della minaccia giudiziaria. E in effetti, quando dietro alla struttura c’era un investimento immobiliare, una volta venduti case e negozi (ciò è successo) ce n’era per tutti. Gran parte dei porti più famosi costruiti a suo tempo oggi giacciono nell’oblio o quasi, trasformandosi da affare lucroso in un’eredità pesante sotto il profilo economico e fiscale. Oltre tutto molti sono pieni di barche abbandonate, che tutti vorrebbero vendere ma nessuno vuole, a conferma che tutto è effimero e c’è un momento per ogni cosa. Ora c’è da fare i conti anche con la Direttiva europea cosiddetta Bolkestein, dal nome del commissario europeo per la Concorrenza e il Mercato, approvata all’unanimità dalla Commissione europea quando ne era presidente Romano Prodi.  L’esperienza europea insegna che le normative emanate dalla Commissione sono modificabili nella fase di impostazione, ma è assai difficile se non impossibile cambiarle successivamente, nel breve periodo.

La discussione sulla Bolkestein è iniziata in Commissione Europea, con procedura legislativa ordinaria (cioè nel pieno del suo potere legislativo, che non necessita di ulteriori approvazioni) nel lontano 2004 e terminata nel 2006. E come in ogni direttiva il testo finale risente delle pressioni politiche e burocratiche di ciascun paese. Da quello che sappiamo, ci sono quelli che seguono l’iter con grande presenza nelle definizioni in ogni particolare del testo e altri che fanno semplicemente una gita all’estero, perché spesso neanche conoscono le altre lingue europee. Per questo le Direttive sono essenzialmente britanniche o Mittel europee. Purtroppo se una modifica è chiesta da Gran Bretagna, Germania o Francia (peraltro generalmente nei tempi previsti) ha buone possibilità di essere accolta, mentre chi ci rappresenta, alla fine, sono sempre quelli del verbo “to badogliate”, del tradire con disonore. Per questo dovremmo dare il meglio di noi stessi nei rapporti europei e invece, com’è stato a fine 2011, siamo i soliti che vogliono ingannare, approfittare della buona fede degli altri. E anche con la Bolkestein siamo ricorsi ai mezzucci, senza affrontare il problema per noi dannoso nei termini attuali. Con apposite leggi, che sono entrate non a caso in due decreti cosiddetti Milleproroghe, abbiamo semplicemente fatto slittare la data di applicazione prima al 31 dicembre 2015 e poi al 2020. Poiché sembra che l’Europa pilotata dalla Germania, voglia darci più fiducia, una decisa presa di posizione del Governo (già sollecitato da UCINA e dalle associazioni professionali di settore) potrebbe forse dare una svolta, sempre che non ci si riduca all’ultima scadenza e non sussistano in quel momento problemi più importanti in altri settori. Altrimenti, proprio per difendere la nostra immagine, dovremo lasciar perdere e adeguarci, accettando tempi di ammortamento e durata che avranno la loro ripercussione sull’offerta turistica delle nostre spiagge e porti. Oltretutto, se si legge il testo della direttiva con mentalità non Mittel europea, ci si rende conto che ci sono molti punti di principio discutibili e non solo perché non tengono conto della nostra realtà, dove la concessione è di fatto un affitto e non un servizio. I controlli vanno fatti sui servizi e non sulle concessioni che già sono ampiamente amministrate secondo i principi di abbattimento delle barriere e libera concorrenza a base dell’UE. Non si possono paragonare le tempestose spiagge battute da venti impetuosi dell’Atlantico e del Mare del Nord alle nostre, accoglienti costiere dove diportisti e bagnanti trascorrono anche le loro giornate e quindi, necessitano di un’accoglienza diversa. Speriamo prevalga il buonsenso.  

Quando però i Comuni e poi le Regioni hanno capito e applicato la regola del “piatto ricco mi ci ficco”, tutto è diventato più difficile. All’inizio la base giuridica era di fatto una circolare dell’allora Ministero della Marina Mercantile e dietro ai pochissimi porti ci sono stati importanti investimenti immobiliari. I capitali erano stimolati da quanto avveniva già dagli anni cinquanta e successivi in Francia, specialmente in Costa Azzurra, trasformata da pochi abitati famosi - meta favolosa dei ricconi del mondo - in un continuo susseguirsi di investimenti immobiliari che stavano portando tanta ricchezza.

Mentre la Francia però agevolava al massimo gli investitori, un volano economico che arricchiva privati e municipi, l’Italia ne faceva l’obiettivo della sua demagogia politica, avversandoli in ogni modo. Tanto per fare un esempio emblematico, in Italia, per evidenti interessi commerciali, a volte c’era addirittura contrasto tra le rappresentanze professionali. Così accadeva, un po’ dovunque, che per poca lungimiranza i porti turistici italiani trovassero migliore accoglienza nei saloni nautici esteri che non in patria, dove la portualità turistica veniva relegata negli spazi meno importanti, in mezzo alle associazioni, ai panini, ai venditori di cianfrusaglie.

E così la nautica italiana per quasi quattro decenni è rimasta strozzata dalla carenza di posti barca. Solo col ministro Burlando al Ministero dei Trasporti e Navigazione, proprio alla fine degli anni ’90 (un ritardo mostruoso rispetto alle esigenze del settore) fu varata una normativa che sostituiva le semplici circolari vigenti fino a quel momento. Anche i Comuni - a volte collusi a volte nemici degli investimenti in queste infrastrutture, che pur rimanendo demaniali erano gestite per decenni se non per 99 anni da imprenditori privati – non comprendevano e ancora non comprendono, nonostante l’esempio di in altre nazioni socialmente più evolute, la necessità di realizzare infrastrutture integrative per l’accesso al mare anche dei diportisti della nautica più popolare. Anzi fino alla crisi hanno favorito la costruzione di approdi sempre più grandi per barche via via più grandi, facendo diventare assai difficile la passione dell’andar per mare. Se fosse mancato l’associazionismo senza fini di lucro con le sue darsene, se gli italiani non avessero l’atavica capacità di arrangiarsi piazzando i loro natanti ovunque possibile, in maniera economica, l’estinzione dei diportisti sarebbe stata certa. Ma la passione sopravvive perché chi ha imparato ad andare in barca non può più concepire il mare sulla spiaggia. E’ urgente perciò una decisione politica del Governo che, pur recependo la direttive europea sulle concessioni demaniali, consenta il mantenimento dell’esistente (assicurando un equo ammortamento delle opere esistenti e la salvaguardia delle concessioni associative senza fine di lucro), ma anche la realizzazione di infrastrutture minori come porti a secco, scivoli, darsene con pontili galleggianti. L’attuale disponibilità di posti barca in questo periodo di riflessione è sufficiente, ma quando la nautica riprenderà alla grande si dovrà essere preparati.

L.P.

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