L'Ing. Sergio Cutolo

L'Ing. Sergio Cutolo

Sergio Cutolo: Hydro Tec, scienza e poesia per gli yacht

Yacht Design

11/09/2020 - 11:03

Hydrotec, la società di progettazione di yacht di Sergio Cutolo, compie 25. Un quarto di secolo impiegato a progettare e ad affinare tipologie e metodi di progettazione, lungo il quale lo studio dell’ingegnere napoletano ha definito e sistematizzato la tipologia degli explorer e ha raggiunto una maturità progettuale che lo ha portato a offrire al cliente, cantiere o armatore privato che sia, un servizio olistico, onnicomprensivo di ingegneria navale, design e styling. È una situazione unica nel campo dello yacht design mondiale, in quanto riunisce in un unico team progettuale tutti gli aspetti della concezione e definizione dello yacht.

Ne parliamo con Sergio Cutolo

Pressmare: Com’è incominciata Sergio questa lunga rotta?

SC: Avevo il mare nel sangue. La mia famiglia aveva una casa a Massa Lubrense, l’ultimo paese in fondo alla penisola sorrentina. Mio padre aveva comprato un gozzo sorrentino degli anni ‘30 per andare a remi e che solo in epoca successiva aveva ricevuto un piccolo Farymann di 7 cavalli. Il giorno che andammo a vedere la prima volta questa barca a Piano di Sorrento, il signor Aprea, un cognome diffuso in quella zona, ci portò in una grotta prospiciente la spiaggia per farci vedere questa barca utilizzata, fino ad allora, per la pesca.

Credo fosse stata verniciata con gli avanzi di almeno 10-15 latte di vernice di diverso colore, ma scoprimmo la chicca la quando fu tolta la cappa dalla coperta: sul ponte di prua erano stati immortalati, da parte di un anonimo artista, i volti dei calciatori della squadra del Napoli.

PM: Laurea in ingegneria alla Federico II a Napoli, e poi?

SC: Quindici giorni dopo la laurea, ero seduto a una scrivania del Cetena dove mi occupavo di idrodinamica, ma applicata alle navi, un sogno coronato a metà. Fu così che, quando fui chiamato per un colloquio da Baglietto e, nel primo capannone trovai lo scafo in costruzione di una barca a vela, mi sembrò di toccare il cielo con un dito. La barca a vela in questione era Italia, un 12M SI che avrebbe poi partecipato, per il consorzio dello YCI, all’edizione della Coppa America del 1987 a Fremantle, in Australia. Accettai subito la proposta del Cantiere ma, per ironia della sorte, quella fu la prima e ultima, o quasi, barca a vela in cui fui coinvolto nella mia professione.

PM: Quello era da Baglietto il periodo Rodriquez, connotato da grandi costruzioni in alluminio. Come si inserì in quel mondo?

SC: Baglietto era sempre stato nel mio cuore fin da ragazzino. Quando ci arrivai a lavorare, iniziai come assistente dell’ingegnere Alcide Sculati che mi disse: “Io qui ti posso promettere, lacrime, sudore e sangue”. In effetti non mi promise altro, ma imparai veramente che cosa volesse dire lavorare e che cosa muoveva il cuore pulsante del nostro mestiere. Mi regalò una calcolatrice Hewlett-Packard 15 C e una vecchia Ford Escort che non usava più. Soprattutto mi regalò il suo tempo e la sua confidenza, continuando a darci del “lei” fino alla fine e con lui imparai il mestiere di Direttore Tecnico, il Direttore d’Orchestra che ha successo solo se tutti gli esecutori sono all’altezza, che è solo di fronte alle decisioni difficili.

PM: Le lacrime e il sangue diedero i loro frutti?

SC: Negli anni sì. Le tante ore passate in Cantiere, week-end inclusi, la possibilità di verificare direttamente le ipotesi fatte in fase progettuale, il “breefing” serale nella nebbia delle Kent fumate dall’ingegnere e il sorsetto di Glen Grant prima di andare a casa, divennero un piacevole rituale. Ancora oggi ricordo “l’odore” del Cantiere, i rumori e i silenzi, quando la sera percepivi il solo rumore dell’onda che si infrangeva sulla battigia.

PM: Durante quel periodo ha partecipato alla costruzione di capolavori…

SC: Il 46 metri, che fu poi battezzato Al Fahedi - progetto tecnico sviluppato dall’Ufficio Tecnico del Cantiere diretto dall’Ing. Sculati, mentre la linea esterna e gli interni furono progettati dallo Studio Zuccon International Project ndr - era, per l’epoca, una barca molto grande e fu una esperienza molto importante dal punto di vista formativo. E poi tre barche in lega leggera da circa 35 metri con propulsione a idrogetto: Adler e Baroness L, due yacht che diventeranno la base per il concetto stesso di yacht veloce Baglietto e il cui stile verrà ripreso e sviluppato fino a oggi, progettati da Alberto Mercati per René Herzog, un pilota svizzero che aveva la società Alucraft; la terza, Lady Anfimar, progetto di un giovanissimo Stefano Righini. Una, un po’ fuori dal coro fu Chato per il barone John Von Neumann. Cliente di Baglietto da più di vent’anni, aveva già costruito o acquistato undici barche prodotte dal cantiere. La maggior parte molto veloci, realizzate espressamente per lui, con un design esclusivo ispirato a quello delle barche militari e sempre completamente asimmetriche nelle sovrastrutture, tutte chiamate con il nome di un capo indiano: Geronimo, Cochise, Tazah, Nachite.

Chato non era da meno. Progettato sulla falsa riga del predecessore Nachite, un po’ più lungo e con il layout speculare, era motorizzato all’origine con due motori MTU di circa 2.500 cavalli ciascuno, spinto da idrogetti KaMeWa e sviluppava una velocità massima di circa 50 nodi. Ma questo non bastava a Von Neumann. Durante l’inverno chiese al cantiere di sostituire i motori con due più potenti di circa 3.500 cavalli ciascuno. Il risultato fu un missile da quasi 60 nodi, probabilmente ancora oggi lo yacht più veloce al mondo che non sia dotato di una turbina a gas. Nel 1991 Leopoldo Rodriquez mi offrì il prestigiosissimo ruolo di Direttore Tecnico. Il mio sogno si realizzava: il giovane ingegnere si sedeva al posto che fu di Vincenzo Vittorio Baglietto, di Pietro Baglietto dopo di lui e di Alcide Sculati prima di me. Nei primi due anni furono prodotte delle barche che rappresentavano, sicuramente, un punto di riferimento a livello internazionale come Maffy Blu, Rominta, Romantica, Elsewhere, Alba, in buona parte progettate da Aldo Cichero, ed erano un punto di riferimento irraggiungibile per la concorrenza.

PM: Poi arrivò la crisi dei primi anni ’90, con la gestione Giampiero Moretti, patron della Momo…

SC: La crisi economica di Baglietto portò al Concordato nel 1995. Pur avendo ricevuto alcune proposte di lavoro molto interessanti, non volli cercare altri cantieri. Nel mio cuore c’era solo Baglietto. Tuttavia, questa fu un’occasione per me che, uscito a giugno del 1995 da Baglietto, con coraggio e con un po’ di incoscienza, scommettendo su me stesso mi sono messo in proprio. Nacquero così i primi progetti “Sergio Cutolo/Hydro Tec”. Gianpiero Moretti e Paolo Caliari mi stimolarono a intraprendere la carriera professionale, aiutandomi e guidandomi.

PM: Con Paolo Caliari realizzaste due costruzioni d’avanguardia in alluminio, per giunta in Turchia…

SC: Una mattina a Saint Tropez con René Herzog, il pilota svizzero della Alucraft, andammo a incontrare Hayati “Wili” Kahmi, nella sua splendida villa immersa nel verde. Kahmi era il proprietario del Cantiere turco Proteksan, con cui Renè aveva realizzato alcuni dei suoi progetti, tra cui Texas e Dakota. Quello fu l’inizio di un’importante collaborazione che ha contribuito in maniera determinante alla crescita di Hydro Tec. Più o meno un anno dopo, infatti, mi trovavo con Wili e René al Salone di Monaco, a bordo di un rimorchiatore convertito in yacht. Ci raggiunsero Paolo Caliari e Gianpiero Moretti che conosceva René per i reciproci trascorsi da pilota. Caliari, invece, conosceva Kahmi perché molti anni prima aveva collaborato con Proteksan per la realizzazione di Motivator. Quel giorno fu definita una tipologia di barca che sarebbe divenuta di moda qualche anno dopo. Da quell’incontro, infatti, nacquero Vinydrea II e Cameleon B, rispettivamente di circa 40 e circa 42 metri, interamente costruiti in lega leggera, capaci di velocità massima ben superiore ai 20 nodi, con sovrastrutture asimmetriche e un ampio ponte aperto a poppa. Il progetto delle linee esterne era di Paolo Caliari e Hydro Tec si occupò di tutti gli aspetti tecnici. Alla fine degli anni ‘90 non si parlava ancora di “explorer”. Cameleon B era una barca con linee innovative montate su uno scafo veloce, in lega leggera, capace di 24 nodi. Vinydrea II era leggermente più corto di Cameleon B ma era sviluppato sulla stessa piattaforma navale.

PM: Hydro Tec è un po’ il padre della tipologia explorer che ora va tanto di moda. Qual è stato il primo vero explorer firmato da Sergio Cutolo?

SC: Nel 2004 un amico mi propose di incontrare un broker a Montecarlo per discutere di un nuovo progetto per un cliente. Non avendo trovato quello che cercava, il cliente aveva deciso di rivolgersi a uno studio di ingegneria navale per arrivare alla definizione di un progetto ex-novo. Fui avvisato che il cliente era molto “difficile” in quanto marinaio espertissimo, navigatore, velista, velaio, pilota d’aeroplani, subacqueo e scrittore di romanzi marinareschi e non. A ottobre, durante il Salone di Genova, incontrai il cliente. Feci un breve discorso introduttivo, spiegando le capacità del mio ufficio e sottolineai il fatto che ci occupavamo esclusivamente di ingegneria navale e che, quindi, avremmo dovuto identificare un designer che ci aiutasse nella definizione dello stile. Il cliente mi squadrava in silenzio, senza manifestare la minima reazione alle mie parole.

Quando ebbi finito la mia esposizione mi spiegò, in estrema sintesi, come avrebbe dovuto essere la sua barca ideale. "Una imbarcazione da diporto larga, stabile e dotata di grandi volumi e spazi aperti. Capace di trasportare un tender di almeno 6,5 metri e con la possibilità di far atterrare un elicottero leggero Robinson 22 sul ponte superiore, quattro cabine ospiti, due cabine equipaggio, ampio spazio di vita per l’equipaggio, timoneria separata e disposta a prua, con vetri rovesci, per una visibilità ottimale. Le quattro cabine "galleggianti" su un mare di gasolio e la propulsione affidata a un unico motore Badouin, sei cilindri in linea, con sistema "take me home" oleodinamico comandato da un piccolo motore ausiliario. E per il design esterno? “Lo stile esterno della barca - mi disse - dovrà essere assolutamente funzionale e privo di fronzoli, più la barca sarà brutta e meglio sarà, per questo va benissimo che la progetti un ingegnere”. Come inizio dell’attività di design, in Hydro Tec, non era male cimentarsi con una barca che doveva essere “più brutta che si può”! La barca in questione divenne il Naumachos 82’, costruito dai Cantieri Navali di Pesaro, il cliente è Stefano Carletti, scrittore, giornalista, velista, velaio, subacqueo, esploratore, il broker è Vasco Buonpensiere, l’amico è Alfonso Postorino.

PM: Dopo quel fortunato esordio ha avuto inizio la lunga collaborazione con il Cantiere delle Marche?

SC: La crisi finanziaria del 2008 segnò la sorte, tra gli altri, dei Cantieri di Pesaro. In realtà fu la divisione commerciale del Cantiere, impegnata nella realizzazione di alcune gasiere, che trascinò nel baratro anche la Divisione Yacht, la CNP Explorer Vessels, che in realtà viveva in una sua autonomia e aveva ordini e contratti in corso. Il rapporto con i fratelli Ennio e Andrea Cecchini, con il loro Direttore di produzione, Michele Santini e con tutto lo staff del Cantiere Pesarese era solido e fondato sulla reciproca stima e fiducia. Verso la fine del 2009 Ennio Cecchini stava organizzando un nuovo Cantiere per la produzione esclusiva di Explorer ad Ancona insieme a dei nuovi soci. Un cliente dei Cantieri di Pesaro decise di "correre il rischio" con un cantiere nuovo che nasceva nel pieno della crisi finanziaria del 2008. Rispetto al Naumachos di CNP si decise di aumentare ancora la larghezza dello scafo portandola da 7,20 a 7,50 metri e il volume della sovrastruttura. Si optò, inoltre, per la propulsione a due motori anziché monomotore, con linee d’assi racchiuse, insieme alle eliche ed ai timoni, da due grandi skeg. In tal modo si sarebbe mantenuta una ottima stabilità di rotta e le eliche sarebbero rimaste completamente protette. Le linee dello yacht vennero un po’ ammorbidite e il fly sviluppato ulteriormente. La prima barca fu ultimata, a tempo di record, in 15 mesi e, nel frattempo si metteva insieme lo staff e si attrezzava il cantiere. Nacque così la linea Darwin che dagli 86 piedi dell’esordio è arrivata ai 140 piedi del Flexplorer e sicuramente crescerà ancora.

PM: Quando iniziò la collaborazione con Palumbo e l’ingresso nel dorato mondo dei megayacht?

SC: Conobbi Giuseppe Palumbo nel 2008 in occasione di una trattativa con un cliente per il completamento di uno scafo di 73 metri che alcuni anni prima era stato realizzato, su nostro progetto, dalla Rodriquez Yachts a Pietra Ligure. Il progetto non andò a buon fine, ma si instaurò un rapporto franco e cordiale tra Il Cantiere Palumbo e la Hydro Tec che si finalizzò quando il cantiere decise di iniziare la costruzione di uno yacht di 54 metri, interamente finanziato in proprio. La sfida era di altissimo livello: un cantiere che, proprio in quegli anni, iniziava la sua inarrestabile evoluzione, il primo megayacht, completamente sviluppato da noi per quanto riguardava ingegneria e design esterno, costruito nella mia città natale, le avvisaglie della crisi mondiale. La costruzione di Prima, nome bene augurale scelto dal Cantiere, durò circa tre anni, con qualche momento di rallentamento nel 2010 dovuto alla crisi. La cerimonia del varo fu un momento di grande emozione: vedere quel bestione nel bacino galleggiante, vederlo finalmente galleggiare, la partecipazione di tutte le maestranze, l’orgoglio di essere stato, in qualche modo, “profeta in patria”.

PM: Con Palumbo ebbero inizio due interessanti evoluzioni, il primo vero superyacht ibrido e in qualche modo il seme della visione olistica di Hydro Tec…

SC: ll Columbus Sport Hybrid 40 M nacque dall’unione di due fortunate circostanze. Da un lato, tramite il broker e amico Jimmy Broddesson, iniziammo a lavorare “a quattro mani” sul concetto di una barca sportiva per un cliente che desiderava, comunque, spazi abbondanti e possibilità di navigare a bassa velocità in assenza di rumore. Dall’altro lato l’esigenza del Cantiere Palumbo di sviluppare un nuovo progetto innovativo e moderno per completare l’offerta della sua linea di yacht Columbus, una nuova proposta caratterizzata fortemente sia dal punto di vista dello styling che dei contenuti tecnici. La capacità di sviluppare ingegneria e design su qualunque dimensione e qualunque materiale, è uno dei punti di forza di Hydro Tec. Nacque così la sfida più folle e spericolata della mia carriera, almeno fino ad oggi: Dragon Columbus Classic 80 M, a tutti gli effetti la nave ammiraglia di Hydro Tec. Utilizzando l’approccio olistico e creativo ormai tipico di Hydro Tec, i nostri progettisti e ingegneri hanno creato un megayacht a dislocamento completo, con scafo in acciaio e sovrastruttura in alluminio. Il design del nuovo Columbus Classic 80 M utilizza l’etica di “less is more”, composta da linee pulite e nitide che fondono elementi contemporanei senza soluzione di continuità con proporzioni classiche.

PM: Cosa c’è all’orizzonte, o dietro l’orizzonte di Hydro Tec?

SC: Il 120 metri, l’ammiraglia della linea Columbus Classic. Progettato con gli stessi principi fondamentali del Dragon di 80 metri. Le sue linee pulite e nitide fondono elementi contemporanei con proporzioni classiche, creando un’estetica elegante e senza tempo. Progettato con ampie vetrate da pavimento a soffitto e ringhiere in vetro “frameless”, il 120 può trasportare ventidue ospiti in dieci cabine situate sul ponte principale, nella zona di prua, mentre la suite armatoriale, di 260 metri quadri, si trova al di sopra con una cabina rivolta a prua. Il layout è studiato per offrire agli ospiti un accesso facile e diretto al mare attraverso l’enorme beach club situato nella poppa dello yacht, dove si trovano anche una Spa, una palestra, piattaforme da bagno su ogni lato e una piscina coperta situata appena sotto il fondo di vetro del ponte, con una bella cascata proveniente dalla piscina del ponte superiore. E poi… chissà… dipenderà dal mercato.

PM: può riassumere l’unicità della proposta di Hydro Tec?

SC: La visione olistica del progetto e del suo sviluppo di Hydro Tec nasce dalla capacità di gestire scientificamente l’ingegneria navale e poeticamente il design dell’intero yacht, fondendone tutti gli aspetti con creatività da scienziati e da poeti. È il risultato del lungo percorso di vita, degli incontri e delle relazioni coi grandi yacht designer. È una proposta unica nel genere che in Hydro Tec abbiamo saputo mettere a frutto, attingendo alla composita esperienza, grazie anche all’apporto innovativo e dinamico delle nuove generazioni – dai collaboratori alle figlie – per offrire al mondo dello yachting business una proposta unica e senza pari nel genere, che sicuramente creerà una possibile tendenza nella professione e nel settore, ma che ne vedrà comunque Hydro Tec in testa alla schiera!

Roberto Franzoni

 

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